“I Mostri Non Nascono Dall’oggi Al Domani, C’e’ Una Cultura Che Li Alimenta”
Queste parole sono di Elena, la sorella di Giulia Cecchettin, sorella uccisa pochi giorni fa dal suo ex ragazzo, che molti continuano a definire mostro, ma che in realtà è un ragazzo, come molti ce ne sono, figlio di una società che guarda, si inorridisce, ma spesso non si muove e lascia passare, come tutto fosse consuetudine, come se ogni forma di prepotenza, prevaricazione, sopraffazione fosse prassi, norma.
E lo è! Questo è il punto cruciale, quello dal quale non ci si allontana e che porta, nei casi più gravi, a togliere la vita a qualcuno che si dice di amare, ma che si vuol solo controllare, prevaricare, sopraffare.
Dice bene Elena nella sua lettera inviata alla stampa: “Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere”.
Ciò che può fare uno, non sempre può fare l’altra. O per meglio dire, certe cose le femmine non le pensano neanche.
Quando si parla di società intrisa di violenza, si parla della semplicità con cui i ragazzi ti alzano la gonna a scuola, ti toccano il sedere in discoteca, ti fischiano quando cammini per strada e ti definiscono per il tuo aspetto fisico. Quando ti guardano la scollatura della maglietta, o ti mettono le mani sulla gamba. Il tutto senza pensare minimamente di chiederti se per te va bene. Lo danno per scontato.
Non è violenza questa? Non è il pensiero maschio? E quante sono le volte e le donne che sin da bambine hanno subito angherie di questo tipo? Quante le hanno denunciate o hanno almeno tentato? Quante sono state derise o sminuite anche da chi avrebbe dovuto difenderle per rispetto del ruolo ricoperto? Tante. Innumerevoli. Troppe.
Quindi non basta la sopraffazione, la prevaricazione… entra in campo anche il pregiudizio.
Perché se ti alzano la gonna, ti toccano il sedere, ti mettono una mano sulla gamba, ti fischiano per strada sarai sicuramente vestita come una “zoccola” e pertanto “te la sei cercata”.
E se sei Elena, la sorella di Giulia, sorella uccisa e hai una felpa con una stampa con un pentacolo rovesciato e il simbolo 666 (così scrivono) e hai delle fotografie su i un profilo social con occhi dipinti di nero, e indossi ali nere o croci a rovescio, bhé, in questo caso agli occhi del mondo violento per eccellenza il problema sei tu. Chissà poi la famiglia! Il padre ha lasciato che sua figlia si vestisse così? Chissà allora com’era Giulia. Se la sarà cercata?
Il pregiudizio. L’ipocrisia di questa società che osanna Mercoledì Addams e il suo culto oscuro e che inneggia alla morte, ma giudica una giovane donna che ha perso sua sorella uccisa brutalmente da un “bravo ragazzo che l’amava e che le faceva i biscotti” solo per qualche fotografia e una felpa.
Non è più, in gran parte, anche se ancora esiste, eccome se esiste, il patriarcato degli anni ’50, ha solo cambiato forma, ma la sostanza è sempre tossica.
Violenza che alimenta violenza. Dalla violenza diretta, alla rivittimizzazione. Neanche una persona avrebbe dovuto cercare una motivazione a sostegno dell’azione compiuta da quel “bravo ragazzo”, una spiegazione sul perché sia arrivato a fare ciò che ha fatto. Nessuno avrebbe dovuto anche solo pensare che lei, Giulia, potesse aver sbagliato a parlare ancora con lui, a vederlo. Chiunque, tutti e tutte avremmo dovuto quantomeno stigmatizzare, a condannare ci penseranno i giudici, si spera, la brutale azione compiuta da Turetta. Questo dovrebbe essere la norma, e come ha ben spiegato sempre Elena:
“È responsabilità degli uomini in questa società patriarcale dato il loro privilegio e il loro potere, educare e richiamare amici e colleghi non appena sentano il minimo accenno di violenza sessista. Ditelo a quell’amico che controlla la propria ragazza, ditelo a quel collega che fa catcalling alle passanti, rendetevi ostili a comportamenti del genere accettati dalla società, che non sono altro che il preludio del femminicidio”.
Perché la realtà è proprio questa: tutti sanno, tutti vedono, nessuno si muove.
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