Eva e il frutto dell’amore
Prosegue il racconto di Mirella Santamato sulle trappole invisibili che ci impediscono di amare.
Se sei rimasto/a indietro leggi il primo articolo, leggilo qui! A questo link trovi invece il secondo articolo di Mirella Santamato.
La Vita vuole conoscere se stessa, noi viviamo come esseri pensanti poiché possiamo accorgerci di vivere, cioè diventare consapevoli di ciò che siamo e stiamo facendo.
Indubbiamente non è poco. Ma questa conoscenza può avvenire solo attraverso un atto d’amore, attraverso un’offerta della propria essenza ad un altro essere. È ciò che generosamente Eva fa ad Adamo, amandolo a tal punto da lasciarsi conoscere.
Eva, cioè la donna, l’eterno femminino, ha quindi il dono della Vita dentro di sé.
Anche questo fatto è talmente banale che fa sorridere doverlo sottolineare. Quante volte abbiamo pronunciato la frase “la donna porta la vita in grembo”? Il fatto incredibile è che è vero, e che le donne se lo sono dimenticato.
Impauriti dalla possibilità che Eva se ne potesse ricordare, i Patriarchi della Bibbia, che altro non erano che poveri pastoriebraici del deserto di 5.000 anni fa, pieni di paure e superstizioni, si sono affrettati subito a puntualizzare poche pagine dopo, che Eva è stata creata da una “costola” di Adamo e pertanto se ne deduce che è un essere secondario nella creazione.
Quindi la Genesi stessa si contraddice in terminis perché afferma due cose diverse nel giro di poche righe: nella prima parte appare evidente l’uguaglianza di tempi e di modi della Creazione stessa, e poi, in aggiunta e quasi a contrasto, mi verrebbe da dire, si puntualizza, invece, la diversità, cioè la subordinazione “congenita” (è il caso di dirlo) di Eva.
Esperti molto più accreditati di me hanno indagato su questi punti oscuri delle Sacre Scritture , ma non è questa la sede per analisi di questo tipo, come ho già detto. Ciò che interessa al mio ragionamento riguarda ciò che è rimasto a livello popolare di questo insegnamento, che cosa è rimasto, per dirla con Jung, nel nostro inconscio collettivo di questo modo di interpretare le cose.
Il punto è proprio questo: si tratta di una semplice interpretazione, una cosiddetta “metafora”, o di un fatto oggettivo e indiscutibile?
La Chiesa ebraica, la Chiesa Ortodossa e la Chiesa Cattolica si sono, nel tempo, attaccate ad una o all’altra delle visioni alternativamente, a seconda del momento storico, culturale e sociale. Questo modo di ritrattare e di rimescolare le carte nel tempo mi sembra in netta contraddizione con il concetto stesso del Divino, che è puro Amore e pura Giustizia.
Possibile che Lui non abbia tratto nessuna leonessa dalle costole del leone, né nessuna gatta dalla costola del gatto e abbia creato tutti gli esseri viventi uguali, perfetti e funzionanti, tranne la donna?
Non vi sembra almeno discutibile come visone?
Chissà perché mi viene in mente il processo a Galileo e al fatto che la Bibbia dicesse che la Terra fosse piatta e posta al centro dell’universo, e che, quindi, tutti gli astri dovessero per forza girare intorno ad essa. Per logica conseguenza, senza ombra di dubbio, allora, il grande scienziato pisano doveva avere torto. Ciò che è capitato a Galileo è un esempio tra le migliaia di casi che sono capitati nei lunghi millenni della nostra storia e che ancora, per migliaia di volte, dovranno capitare nel nostro futuro, se non usciamo dalle nostre gabbie mentali.
Tutto questo perché molto più facile radere al suolo una montagna, costruire un razzo per andare su Marte e trovare un sistema per scomporre la materia, che cambiare un pensiero (pregiudizio?) nella nostra mente.
Guardiamo ora com’è fatta una donna dal punto di vista genitale.
Tutti sanno che il suo organo genitale è interno, non visibile, quindi non conoscibile, se non in minima parte, all’esterno. Anche questa riflessione rasenta la banalità.
Eppure in quell’organo (e solo in quell’organo, guarda caso!) ha origine la Vita. E se la cosiddetta “mela”, fosse semplicemente, l’immagine poetica che rimanda a un altro tipo di frutto, un frutto di un altro albero, per esempio il fico? Infatti subito dopo, entrambi si coprono con “le foglie di fico”.
Dove le avevano prese? Dal fico, naturalmente, dallo stesso albero che aveva reso possibile l’accesso alla Divina Conoscenza.
A questo punto mi viene spontaneo collegare la parola volgare “fica” con l’albero del fico, anzi proprio con il suo frutto turgido e gustoso. Forse può sembrare azzardato questo pensiero, ma lo scopo di questi pensieri in libertà è proprio quello di creare una mappa di collegamenti diversi dal comune sentire, e di spingersi provocatoriamente in territori inesplorati. Altrimenti tutte queste mie parole sarebbero inutili.
Al di là della reale origine botanica di quell’albero mitico, è bene considerare che, in quasi tutte le lingue del mondo, l’organo femminile, dolce e succoso, è simboleggiato dal nome di un frutto. In Germania è la prugna, in altri continenti è l’avocado o la pera. In alcune zone d’Italia è ricordata l’albicocca, ma comunque si tratta sempre di un frutto succoso, buono e saporito.
Eppure a me, italiana, non può rimanere inosservato il fatto che nella mia lingua, la vulva venga denominata più comunemente proprio come il frutto del fico, con desinenza femminile. Non a caso, neanche, il fatto che sia una parola volgare, cioè parlata dal popolo, cioè da tutti. Non mi è mai sembrato più appropriato il detto latino “Vox populi, vox Dei”.
Mi sembra lecito a questo punto ipotizzare che la volgarità, una volta tanto, non serva solo a tradire le origini poco eleganti di chi parla, ma a sottendere una verità molto profonda, tramandata proprio da un intero popolo con l’unico mezzo che, avendo poca dimestichezza con la scrittura, era in grado di esprimere nel tempo, cioè tramite la propria parlata volgare.
In fondo le parole volgari (che altro non significano che “espresse dal volgo”) in qualche modo, appartengono a quella misteriosa fonte di saggezza popolare che è arrivata sino a noi distillata attraverso i secoli.
Dentro di noi, quindi, dovrebbe risuonare qualche antica vibrazione al fatto che Eva (e solo lei) ha la “fica”, cioè la conoscenza della Vita.
Inoltre non dovrebbe risultarci estraneo il concetto che la parola “ficata” (sempre, guarda caso, di origine volgare, popolare) implica una cosa molto bella e vitale e la parola di contraltare “sfiga” indichi la mancanza della suddetta, cioè una grande sfortuna.
Forse la parola “sfiga” sta semplicemente a simboleggiare l’allontanamento dalla “figa”, appunto, cioè dalla Vita e dal benessere profondo.
Questo semplice ragionamento sulle nostre parole più grossolane potrebbe far storcere il naso ad alcune persone, ma ritengo che proprio il popolo, e non gli intellettuali e gli studiosi, mantenga viva la verità nelle parole, anche se non è certo in grado di riconoscerne l’antico legame originario. Non bisogna aver paura delle parole, anche se può sembrare poco appropriato usare termini così poco ortodossi in un ragionamento su concetti così elevati. Inoltre il preciso scopo di questa mia riflessione è, e lo ripeto, un’indagine su ciò che la gente comune pensa e dice, anche inconsapevolmente, e non un trattato filosofico o accademico.
La grande Legge cosmica di Ermete Trimegisto dice: così sopra, così sotto. Tutto fa parte della Vita, tutto ciò che esiste di visibile e invisibile è Vita. Perché quindi avere paura di alcune parole? Se ne abbiamo paura allora vuol dire che abbiamo paura della verità che esse portano. E il cerchio si chiude di nuovo.
To be continued…
(Brano liberamente tratto dal libro “LA TRAPPOLA INVISIBILE “della stessa autrice- www.mirellasantamato.net)