La donna mette al mondo il mondo, ma stenta a mettere al mondo sé stessa.
Prosegue il racconto di Mirella Santamato sulle trappole invisibili che ci impediscono di amare.
Se sei rimasto/a indietro leggi qui il primo articolo, a questo link trovi invece il secondo e qui puoi leggere la terza parte; la quarta parte; quinta; sesta; settima e ottava parte del racconto di Mirella Santamato.
Prima di tutto bisogna sapere che questo lavoro di grande consapevolezza viene fatto anche per loro, gli uomini, i nostri compagni di viaggio, e, si spera, in futuro, anche con loro.
Con la parola loro intendo non solo il vostro partner, o i partners delle vostre amiche, ma veramente tutti gli uomini possibili, soprattutto quelli che, tenendo in mano le leve del potere sulle forze del pianeta, lo stanno uccidendo lentamente.
Se una donna non conosce la strada verso la Conoscenza dell’Amore, come può trasmetterla a un uomo?
Andiamo, quindi, a conoscere lo stato attuale di malattia del “paziente” ovvero il rapporto malato tra uomini e donne, per poter, poi, risalire indietro fino alla causa primaria che ha originato tutto lo sfacelo.
Riporto le parole di Joyce Lussu,[1] nel suo libro Padre, Padrone, Padreterno, che mi sembrano adeguate. Dice Joyce:
“L’uomo ha sempre seguito l’impulso di firmare le proprie opere e di propagandare le proprie scoperte, spinto dalla necessità di dimostrare ogni volta il suo esistere, contro le angosciose paure del nulla. La donna semplicemente esisteva ed esiste, perpetuando ad ogni parto sé stessa e la vita, l’ego e il cosmo.”
Sono d’accordo con la Lussu, anche se vanno fatti alcuni chiarimenti. La donna esisteva ed esiste solo se diventa consapevole di sé stessa, altrimenti avrebbe avuto bisogno, come l’uomo, di poter firmare le sue opere, cioè i suoi figli.
La donna, è vero, “mette al mondo il mondo”, ma stenta a mettere al mondo sé stessa.
Gli uomini e le donne hanno 46 cromosomi, di cui uno solo è diverso: quello che porta la differenza sessuale. Gli altri 45 cromosomi sono uguali però, e questo ci dice quanto siamo molto più simili gli uni alle altre di quanto pensiamo.
Quindi anche la donna, in una società fondata su valori di patrimonio, avrebbe avuto bisogno di poter firmare le proprie opere, come l’uomo, per avere una definizione più sicura di identità, poiché il proprio nome avvalora la propria identità. A dimostrazione di ciò, si pensi all’alienazione e allo sconforto provato da chi è costretto a stazionare per un certo tempo nelle corsie di un ospedale, quando il riferimento usato dalla struttura sanitaria lo definisce tout court “fegato n. 37”. La perdita del nome proprio crea destabilizzazione e disequilibrio psichico.
Le donne hanno subito questo trattamento per migliaia di anni e ancora attualmente nessuna donna può dare il nome al proprio figlio, neanche nelle zone più evolute del pianeta, come dicevamo prima, a meno che sia un figlio partorito fuori dal matrimonio, a meno che quindi, viva “al di fuori” della legittimità legale.
Da questo piccolo particolare scaturisce evidente che si tratta di leggi, appunto, di convenzioni fatte dagli uomini che niente hanno a che vedere con le leggi naturali, anzi, presuntuosamente, le sovvertono.
La Natura, infatti indica solo la mater certa, tutto il resto è rappresentato da distorsioni umane.
“Sono problemi burocratici, anagrafici”, tuonano i sociologi, i politici, gli storici, “Da che mondo è mondo è sempre stato così ed è solo questione di praticità, altrimenti i cognomi sarebbero chilometrici!” fanno gli altri in coro.
Già, certo, praticità. A vantaggio di chi? Ovviamente del maschio.
Nessuno mai, però, ha percepito l’atroce, sottile violenza di togliere “a chi fa il lavoro” la gioia e l’orgoglio di potersene dichiarare, nei secoli dei secoli, l’artefice.
Se a Raffaello Sanzio, alla fine dell’ultima, faticosa pennellata alla tela de “La Trasfigurazione” fosse stato detto: “Bene, bravo, la tua opera è egregia. Sarà chiamata opera di Giulio II de’ Medici, (che gli aveva commissionato il lavoro per la cattedrale di Narbona nel 1516) nei secoli dei secoli”, come credete che si sarebbe sentito?
Defraudato, violentato, imbrogliato. Giusta reazione. Una giusta reazione di uomo libero, sicuro della propria identità e valore.
Perché, invece, la donna non ha la stessa reazione?
Perché è stata abituata, nei millenni, a subire violenze senza replicare, ad accettare torti senza fiatare, perché non era in grado di (né forse ha voluto) rispondere ad essi fisicamente. Ha dovuto continuare a stare zitta, connivente con il suo carnefice, come dicevamo prima. Per accettare la schiavitù bisogna pensare da schiavi. E se qualcuno si inalbera a queste parole pensi che oggi, nel terzo millennio, la stragrande maggioranza delle donne nel mondo, non sa né leggere né scrivere, indossa tutti i giorni un abito-prigione e molto spesso non può allontanarsi dalla propria abitazione per tutta la vita. Nascere di sesso femminile per questi esseri umani rappresenta la condanna all’ergastolo, ad essere prigioniere a vita, anche se ormai non ne percepiscono più la gravità e l’omertà, avendo ricevuto da tutta la società che le circonda, il lavaggio del cervello necessario ad accettare la pesante condizione.
E non è neanche del tutto vero, come alcuni sostengono, che sia solo un originario dislivello muscolare ad aver creato il vero problema. Questa è solo la visione più superficiale. Sotto di essa stanno altre motivazioni, di cui una delle più importanti è il fatto che l’uomo non può, (o è meglio dire, non ha potuto) nei secoli passati, essere certo della propria paternità. Questo è il suo vero svantaggio, e, di conseguenza, anche il nostro.
Non potendo avere la certezza della propria discendenza, la risposta più facile per illudersi di averla è stata, da sempre, la stessa: imprigionare la donna, impedirle fisicamente di avere contatti con altri maschi e assicurarsi il possesso del suo corpo ad oltranza .
Da qui i mille divieti, i mille veli, le mille angherie, le crudeli gelosie che hanno fatto soffrire le donne da millenni e le hanno staccate dalle connessioni con il profondo valore del proprio corpo, e spesso, anche dalla propria anima.
…to be continued
(Brano liberamente tratto dal libro “LA TRAPPOLA INVISIBILE “e “QUANDO TROIA ERA SOLO UNA CITTÀ” della stessa autrice- per acquisto libri e inserimento nel mailing list: www.mirellasantamato.net)
[1] Nata a Firenze l’8 maggio1912 e morta a Roma il 4 novembre1998, è stata una partigiana, scrittrice, traduttrice e poetessaitaliana, medaglia d’argento al valor militare, capitano nelle brigate Giustizia e Libertà, sorella dello storico e antifascistaMax Salvadori e moglie in seconde nozze del politico e scrittore Emilio Lussu
Raffaello, Madonna della Seggiola (1513-1514)