Di Franco Tassi
Naturalista di vocazione, Giornalista ed Ecologo, è stato per lungo tempo il Direttore Soprintendente del Parco Nazionale d’Abruzzo, salvandolo dalla rovina e portandolo alla ribalta internazionale (1969-2002). E in tale veste si è occupato a fondo anche degli Orsi, producendo una quantità di studi, articoli, monografie e documentari.
L’assassinio di Amarena, senza giustificazione alcuna, l’ennesimo “ursicidio”, il più grave di tutti. Responsabile del crimine ecologico, l’immancabile eroico cacciatore-bracconiere. E pensare, che c’è ancora chi ha il coraggio di celebrare il nobile “ambientalismo venatorio”, spergiurando che la caccia difende la natura, e assicurando che non ha mai estinto alcuna specie animale.
Una tragedia da tempo nell’aria, nella patria dell’analfabetismo ecologico e in un Parco Nazionale ormai in via di smantellamento.
Ma per chi suona la campana? Rintocco dopo rintocco, il destino sembra segnato. Prima, la soppressione della “Campagna Alimentare”. Poi, la fine dell’iniziativa “Mela-Orso”. Quindi, l’abbandono dell’operazione “In Bocca all’Orso”.
Che volere di più? In questo modo, si è lasciato spazio alle esche alimentari e olfattive per attrarre i plantigradi. A scopo di ricerche scientifiche invasive, oppure di escursioni fotografiche a pagamento. Deviando così gli orsi dalle loro abitudini.
Spingendoli a cercare cibo dall’uomo, e così condannandoli senza scampo. “A fed bear is a dead bear”, vale a dire “orso nutrito, orso finito”. Triste sorte toccata prima o poi a tutti gli orsi liberi, alimentati dall’uomo.
Cibo facile nei villaggi significa orsi viziati, guastati e deviati (spoiled) per colpa della gente. La quale ha la sfrontatezza di definirli “confidenti” o “problematici”, capovolgendo completamente la realtà.
Come se i colpevoli fossero i plantigradi, e non l’uomo.
Artefice nei villaggi di una fiera carnevalesca, che genera visibilità e attira turisti, curiosi e fotografi, ma altera profondamente il comportamento degli animali selvatici.
Non si è mosso un dito per allontanarli, facendoli ritornare alla sana vita selvatica. Eppure, non mancava chi raccomandasse di non usarli come giocattoli, ma restituirli all’ambiente naturale dove lasciarli vivere tranquilli.
Sarebbe stato così difficile? Non troppo. Si sa bene che “un orso non è mai lontano dal suo prossimo pasto”. E quindi sarebbe stato sufficiente far loro trovare cibo abbondante sempre più lontano dagli abitati, per riportarli gradualmente nelle foreste. E poi presidiare il territorio, per evitare che ogni angolo di montagna diventasse il regno del caos e dell’anarchia.
In fondo, la triste storia di Amarena è la metafora della crisi ecologica incombente.
Un patrimonio prezioso, finito in preda all’avidità e all’ignoranza, che lo stanno depredando senza scrupoli. Nei confronti della fauna selvatica, di cui l’orso rappresenta l’espressione più elevata, questi umani che dovrebbero difenderla non sono capaci di mostrare amore, e rispetto, né profonda soddisfazione per il solo fatto di sapere che essa esiste ancora, e che è così che viene conservato l’equilibrio dinamico dell’ecosistema.
Ma quando questo patrimonio viene a mancare, come avviene anche nel caso delle cosiddette “catastrofi naturali” in realtà causate dall’uomo, alluvioni e incendi, anziché riconoscere gli errori, modificando i propri comportamenti, si profondono soltanto in lamentazioni interminabili, e in diluvi di chiacchiere inutili.
Continuando così a marciare, imperterriti, verso “la fine della natura” da loro stessi provocata.